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Dazi e “contro-dazi”, ritorsioni vere e ritorsioni fasulle, ovvero: chi ci perde e chi ci guadagna veramente?

In Analisi on 23/04/2018 at 05:53

A distanza di un po’ di tempo, e dopo tante polemiche (ancora non svanite) intorno ai dazi statunitensi, intendiamo verificare la correttezza delle previsioni fatte dai “soliti esperti”, secondo cui questa politica protezionistica avrebbe fatto più male che bene agli USA.

“Il Sole 24 Ore” del 4 marzo 2018, per esempio, dopo aver scritto:

«Con le tariffe sull’import di acciaio e alluminio più danni che benefici all’industria americana»,

aggiungeva:

«La maggior parte degli esperti concorda che neppure i generalizzati dazi annunciati dalla Casa Bianca – 25% sull’acciaio e 10% sull’alluminio – possano risollevarne le sorti [dei relativi comparti, nda]. […]. Non a caso l’associazione imprenditoriale Business Roundtable ha denunciato che i dazi ‘danneggiano l’intera economia americana’. Simile allarme ha lanciato Motor Equipment Manufacturers Association, nella componentistica auto».

Questi “esperti” dovrebbero allora spiegare perché dirigenti e lavoratori dei settori interessati hanno applaudito alle decisioni di Trump, tanto da essere accanto a lui quando questi firmava la legge.

Insomma, non vi è alcun effetto boomerang e la conferma si ha anche dal fatto che Washington, invece di desistere, è pronta a proseguire sulla medesima strada in caso di ritorsioni estere. Infatti, Trump, che – ricordiamolo – è innanzitutto un imprenditore, un uomo d’affari, il quale, pertanto, conosce benissimo le dinamiche e le implicazioni del mercato, anche internazionale (pure in quest’ottica vanno letti i cc.dd  dazi selettivi) ha affermato che

«Se la UE vuole aumentare le già massicce tariffe e barriere commerciali contro le imprese americane, noi applicheremo una tassa sulle automobili che si riversano liberamente negli USA» (v. idem).

Il 45° presidente degli Stati Uniti sa, evidentemente, che in un eventuale (tutto è finora sospeso) scontro di dazi con Bruxelles, ad avere la peggio sarebbe proprio quest’ultima. E non è l’unico a saperlo.

Sergio Marchionne, amministratore delegato dell’”italo-americana” Fiat Chrysler Automobiles, definisce «non sano», nel senso di “controproducente”, il progetto comunitario che prevede “contro-dazi” (cfr. “La Stampa”, 7 maggio 2018).

La Germania è, con l’Italia, tra i Paesi eventualmente più esposti, tanto che i suoi produttori, allarmati, chiedono di evitare lo scontro a tutti i costi; in effetti,

«le case automobilistiche tedesche fanno il 10-13% dei loro profitti negli USA: corrono il rischio di perdere un terzo dei profitti con dazi del 10%. Ma per alcuni marchi, come Audi, Porsche, Bmw e Mercedes, può andare molto peggio con dazi che potrebbero dimezzare i profitti […]» (cfr. “Il Sole 24 Ore”, 9 marzo 2018).

Ovviamente, in Europa, non sarebbe solo il settore automobilistico a risentire del balzello “trumpiano”. Restando in Germania, leggiamo che

«Die Welt in un’inchiesta dai toni allarmistici ha detto provocatoriamente che il Dax dovrebbe essere ribattezzato ‘Daax’: un indice azionario tedesco-americano perché le 30 aziende dell’indice vendono più negli Stati Uniti che in Germania, con un euro ogni cinque guadagnati negli USA» (v. idem).

Tornando al Belpaese, in caso di ritorsioni comunitarie anti-americane, lo scenario sarebbe critico, tanto che

«il ministro allo Sviluppo economico, Carlo Calenda» esorta «l’Unione Europea ad avere ‘una reazione misurata per non innescare una guerra commerciale’» (cfr. “la Repubblica”, 4 marzo 2018).

La determinazione statunitense allarma anche Confindustria, che dichiara:

«Siamo un paese esportatore e gli Stati Uniti sono il nostro primo mercato di sbocco fuori dall’Europa; dopo la Cina e la Germania, siamo nel gruppo dei pochi paesi che hanno un surplus commerciale con gli USA, il che ci rende vulnerabili ad una guerra commerciale» (v.idem).

Sulla stessa lunghezza d’onda, la Coldiretti, per la quale

«La politica aggressiva degli Stati Uniti rischia di costare cara all’agroalimentare italiano» (v. idem).

Complessivamente, il valore dell’export italiano negli USA è pari ad oltre 40,5 miliardi (tra gli altri, 8 mld dai mezzi di trasporto, 7,5 mld dai macchinari, 5,7 mld dalla chimica, 4 mld dall’alimentare, 1,5 mld dall’acciaio e dall’alluminio).

Ad ogni modo, come vorrebbe, nel caso, reagire l’UE?

Sostanzialmente, colpendo le moto Harley Davidson, il Bourbon whiskey e i jeans Levi’s… Ora, a parte il fatto che si tratta di beni solitamente acquistati da consumatori con una capacità di spesa medio-alta (per cui, un aumento di prezzo potrebbe non spostare di molto la domanda), il valore dell’importazione di questi tre prodotti è inferiore ai tre miliardi!

Quindi: o Juncker (presidente della Commissione europea) si limiterebbe ad atti simbolici e di pura propaganda, o non avrebbe che armi spuntate…

D’altra parte, quando il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha dichiarato che

«se gli USA diventano protezionisti tutto il mondo avrà un problema» (v. “Avvenire”, 23 marzo 2018),

di fatto ha ammesso che, ad aver – come si suol dire – il coltello dalla parte del manico, non è certo l’Europa.

Al di là di tutto ciò, l’UE, più che – e prima di – criticare politiche commerciali altrui, dovrebbe prendere piena coscienza e, quindi, preoccuparsi, che

«Non aiuta il fatto che al comando dell’Europa ci sia una Germania mercantilista […]» (v. Federico Rampini, “la Repubblica”, 4 marzo 2018).

Infine, è interessante rilevare quanto ha affermato Sergio Marchionne, secondo cui

«La gente non ha ancora capito che il presidente Trump sta cercando di difendere gli Stati Uniti da quelle che considerava ingiustizie commerciali» (v. “La Stampa”, 7 maggio 2018);

quest’affermazione del top manager italo-canadese ci porta – indirettamente – a riflettere sui preconcetti che una gran parte dei media e del c.d. establishment (anche il pur ottimo Draghi si è detto “preoccupato” per il “protezionismo” americano…) hanno nei confronti dell’attuale abitante della Casa Bianca, dimenticando che

«il protezionismo estremo oggi» non viene praticato dagli USA, ma «dalle due nazioni più grandi del pianeta, Cina e India. Alcune regole del gioco sono sbilanciate in loro favore, anacronistiche» (cfr. Federico Rampini, “la Repubblica”, 4 marzo 2018).

Ebbene, l’unico Paese che ha avuto il coraggio e la risolutezza di opporsi seriamente e concretamente a questi abusi e soprusi (anche nell’ambito della proprietà intellettuale) è stato quello amministrato da Donald Trump, il cui primo anno di presidenza

«ha prodotto – dice Edward Luttwak, intervistato da “Il Messaggero” – la più grande scalata degli indici della Borsa in un periodo di 12 mesi. L’occupazione è ai livelli massimi anche per le minoranze etniche e le paghe sono in ascesa. Se questo è populismo – ha aggiunto il politologo romeno-americano, dando una stoccata agli ideologizzati media di quasi tutto il mondo – ben venga il populismo».

Della questione inerente ai dazi USA-Cina, tratteremo nel prossimo articolo.